Noi e gli animali, di Umberto Galimberti
Scrive Nietzsche: “Al confronto dell’animale l’uomo si vanta della sua umanità e tuttavia guarda con invidia alla felicità di quello giacché questo soltanto egli vuole, vivere come l’animale, né tediato né fra dolori, e lo vuole però invano, perché non lo vuole come l’animale“.
Le culture primitive, ma anche quelle più evolute come la cultura egiziana e quella greca, sono sempre ricorse alla figura dell’animale per rappresentare la divinità. Ad accomunarli era il loro essere al di là o al di qua del bene e del male, quindi la loro condizione di innocenza eretta a modello e misura dell’uomo nell’esercizio della sua libertà.
Poi venne il Cristianesimo con il suo “Dominerai sopra i pesci del mare e sugli uccelli del cielo, sugli animali domestici, su tutte le fiere della Terra e sopra tutti i rettili che strisciano sopra la sua superficie” (Genesi, 1,26). L’uomo fu così eretto al vertice della scala dei viventi e gli animali furono subordinati al suo dominio. Oggi quando un uomo compie una brutalità si dice che si comporta come un animale, quando invece l’animale non ha mai compiuto le atrocità di cui sono capaci gli uomini.
È lo stesso Hegel a ricordarcelo là dove scrive che mentre l’animale uccide per mangiare, l’uomo uccide per ottenere dal vinto il riconoscimento della sua potenza. Ne è un esempio la cerimonia del “trionfo” in epoca romana dove il vincitore trascinava, legato a una corda al suo carro, il re della popolazione vinta.
La crudeltà umana non è come quella animale, innocente perché dettata dalla necessità della natura, ma colpevole perché sollecitata dalla sua volontà di potenza che alberga in quella figura, l’anima, per cui l’uomo si sente superiore all’animale.
Con la parola “anima” si intende che l’uomo, a differenza dell’animale, non è codificato dalla rigidità degli istinti, e proprio per questo è libero di fare sia il bene sia il male, marcando così la sua differenza dall’animale e da Dio. Compiere il male, essere crudeli con i propri simili dà la sensazione di accrescimento, di potenza, e questo sia quando si uccide, sia quando si mette fuori gioco il concorrente. Molti infatti sono i modi di uccidere. E ogni vittima testimonia il nostro potere e rafforza la nostra identità di cui ci compiaciamo quanto più ne constatiamo la potenza.
Nei confronti degli animali, più indifesi di noi e delle tecniche con cui li catturiamo, il gioco è impari, e perciò facile al punto da non giustificare l’orgoglio con cui si vantano i cacciatori che spesso neppure mangiano le prede che uccidono. Non è la fame infatti che promuove la loro attività, ma il piacere della crudeltà, il godimento del più forte sul più debole. E tutto questo accade in un regime di innocenza, perché anche di recente la Chiesa ha ribadito che gli animali non hanno l’anima, che spesso gli uomini hanno solo per compiere il male.
Ma se non hanno l’anima, gli animali hanno però una sensibilità. Godono e soffrono fisicamente come noi. E accanirsi con crudeltà su di loro descrive molto bene la natura della nostra sensibilità. Il male che facciamo a loro alberga dentro di noi. Si esercita su di loro, ma è disponibile per esercitarsi, come di fatto si esercita, in qualsiasi circostanza e su qualsiasi persona. L’animale seviziato, l’animale abbandonato, l’animale catturato con l’inganno, l’animale ingrassato in batteria con l’illuminazione sempre accesa perché non si addormenti mai, l’animale messo in pentola vivo per non guastarne il gusto, misurano il grado della nostra sensibilità, la sua perversione, la sua ferocia.
Il trattamento che riserviamo agli animali descrive infatti la natura della nostra tanto venerata “anima” che farebbe la differenza tra noi e loro.
Umberto Galimberti
D La Repubblica delle donne del 25 ottobre 2008